Mi sveglio presto. Il cielo è
terso, il sole è ancora tiepido. Intalleo un po’ in cucina e poi penso che sta
finestra tiene proprio una vista di padreterno. Se non sono diventato un
maratoneta vivendo a cento metri dalla spiaggia di Leblon e Ipanema, la corsa mi
fa proprio schifo. Ed io faccio schifo all’umanità. Una corsetella ogni tanto
me la potrei pure fare: se non altro per atteggiarmi con gli amici su feisbuk.
E cosi, un po’ per i social
network, un po’ per stare all’aria aperta e un po’ per scendere la panza,
indosso le scarpe da ginnastica e mi avvio verso il lungomare. L’ipod mi passa
Pinuccio prima che diventasse Pino Daniele, corricchio e il lungomare
lentamente si affolla. Scendo dal calcadao: c’è troppa gente, preferisco
correre sulla spiaggia.
Passo di lato a un campo di
calcio sull’arena. Le porte sono spoglie: i grandi si sono portati a casa le
reti e i piccoli ne approfittano per giocare. Cross, dribbilng, tiri a volo: sarà
che sono brasiliani, sarà che io sono una pippa, ma a me sembrano fortissimi.
Io gli passo sulla fascia e li
guardo meravigliato cercando di non farmi sgamare. Arrivo a fondo campo, esco
all’altezza della bandierina del calcio d’angolo e proseguo la mia corsetta.
Sono ormai oltre la pista d’atletica, la mia attenzione dai pargoli si è già
spostata sul culo di quella che mi corre di fronte, quando mi arriva la palla.
L’hanno tirata troppo forte e adesso mi chiedono a gran voce di restituirla.
Potrei fare mille cose: ignorarla, bucargliela con un coltello, lanciarla con
le mani, ma dentro di me scatta un meccanismo difficile da spiegare a quelli
che non sono mai stati malati di pallone.
Faccio un mucchietto di sabbia e
ci poggio la sfera sopra. Faccio un cenno a un criaturo che capisce al volo che
si deve mettere a porta. Poggio le mani sui fianchi come se fossi Juan
Sebastian Veron ne La Bombonera. Il sole mi acceca e, di colpo, accuso tutto il
calore e il sudore sulla fronte. Penso che sto per apparare una grandissima
figura di merda ma ormai è troppo tardi. Sono già in posizione.
Lancio un’ultima occhiata al
portiere. S’è messo in guardia: ma che m’ha pigliato veramente per Veron? Non
ha capito che mò l’appendo e si pentiranno amaramente di non essere venuti a
prendersela fino a qua? Calcio di interno destro, quasi di collo, cosi bene che
lo ripetessi cento volte non mi riuscirebbe mai tale e quale. La palla prende
un bell’effetto. Il portiere si tuffa con la plasticità di chi è sicuro di
atterrare sul morbido. La palla fa una palombella, sfiora il sette ma non
entra. Continua la parabola alle spalle della porta ed arriva a un bambino che,
con una naturalezza di cui non sarei mai capace, la stoppa di petto e la mette
a terra.
Non sapendo che ho tirato la mia migliore punizione degli ultimi 5
anni, il bimbo mi guarda con una sorta di complicità, mi fa un cenno e
ringrazia.
Io ricambio. Mi volto, sorrido e
me ne vado.
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