venerdì 8 aprile 2011

Il sangue di San Gennaro

A Pasqualino perché aveva sei anni e ogni mattina portava giù l’immondizia, al pescatore monco, perché ammansiva il mare, a Santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati: a loro Màrai dedica il suo romanzo napoletano, ambientato nella città dove visse dal ’48 al ’52, prima di partire per gli Stati Uniti.


[…] Alcuni di questi venditori sono giovanissimi, sanno appena camminare. E ancor meno parlare – si esprimono nel dialetto roco dei napoletani, con frasi smozzicate, in una sorta di brontolio veloce e gridato. Eppure ognuno di loro sa fare il mercante, impara subito, appena si stacca dal seno materno. “La qualità” ripetono con la faccia seria.


L’oggetto del mercanteggiare importa poco. Sono somme irrisorie quando si contratta il prezzo della merce. E’ il mercanteggiare che conta. Un giorno si e uno no si presenta un ragazzino minuto, rachitico e con gli occhi lucidi dei tisici. Non ha neanche sei anni ed è sempre molto sporco. Con la cesta sul capo, sale a stento le scale del palazzo. I concetti base del commercio – la qualità della merce, la stagione, la domanda e l’offerta, il prezzo sul mercato e il prezzo speciale di Posillipo, indipendente dal corso del mercato – li esprime con poche parole. Ma nel suo comportamento, nel modo di presentarsi, di offrire la merce, di alzare gli occhi al cielo, ormai appare solo il commerciante, non più il bambino. Ascolta la controfferta, dopodiché si mette la mano sul petto, con un gesto che rivela un moto di scandalo, il disappunto di chi ha sentito una frase maleducata.


I concetti base di profitto, interesse, peso lordo, peso netto, tara hanno nutrito il suo spirito mano a mano che succhiava il latte materno. Sono concetti ereditati prima dai fenici, poi dai greci. Li ha imparati dal padre, che a sua volta li ha presi dai saraceni, dai mori, dai goti e dai normanni. Per questo è tanto logico. Sa bene che mercanteggiare non è un’impresa disperata, soprattutto se chi vende ha cinque anni, si arrampica sulle scale, suona il campanello con un vesto sulla testa, e con una mano fa vedere un’arancia ammaccata gridando con logica ferrea: “La qualità!”


In fondo è lui il più forte, perché bisogna pur comprargli qualcosa. A prezzo più alto di quello normale.


“Passo anche domani” dice, tenendo in mano trenta lire e dieci mozziconi. Sa bene che questa sua promessa fa sempre piacere agli stranieri


Adesso potrebbe anche andarsene. Ma continua a star fermo sulla soglia, con la cesta vuota in mano. Parlano solo gli occhi. Muto, con la bocca semiaperta, sta fermo davanti alla porta e aspetta qualcosa. E’ inequivocabile: aspetta il miracolo.


“Fallo un miracolo” dice, senza parlare.


“Siamo in otto. L’anno prossimo saremo in nove. E poi in dieci. E anche se qualcuno di noi muore restiamo sempre in dieci. Solo il più grande di noi va a scuola, perché a casa c’è un solo paio di scarpe. Né libri, né quaderni. Niente, non abbiamo niente. Anche lui fa solo i primi due o tre anni e poi non va più a scuola”.


Per un attimo tace. Taceva anche prima ma il silenzio era eloquente. Adesso il suo silenzio è muto. Gli occhi diventano più grandi, tondi e brillanti, come quando ci si sforza di guardare nell’oscurità, nel buio più completo. E dice, senza parlare: “Un miracolo. Sei uno straniero. Fa’ un miracolo”.


Sàndor Marai