lunedì 15 marzo 2010

Napoletano

Non sono un patriota, non si accelera il battito alle fanfare dell’inno nazionale. La mia patria è la lingua italiana. L’ho avuta da mia madre, dai suoi libri, dalla sua pretesa di parlarla in casa senza accento. Nell’agronolano degli anni ’80 il napoletano era lingua schiacciante, veniva dalla pressione della densità umana per metro quadro, era svelto di sillabe, servile e guappo, feroce e sdolcinato di vezzeggiativi, era una lingua di consolazione, dava forza e figura a chi la sapeva usare.

Era destrezza a usare meno sillabe, a ingiuriare più a fondo, a sfottere più scorticatamente. L’ho imparato a orecchio a forza di sconfitte sul campo della strada. Un dialetto si impara per legittima difesa. Sta nella bocca come dentro un fodero di cuoio.

In una vita puoi studiare dieci lingue, ma non due dialetti.

L’italiano è una lingua raggiunta, la amo. Per l’altra non uso il verbo amare. Al napoletano voglio bene e lui pure me ne vuole.

Gli voglio bene perché mette forza di raddoppio alla parola “ammore”, al posto del più delicato amore, e nel “dimmane” che dev’essere migliore del solito domani. Gli voglio bene perché al contrario dell’indicativo “abbiamo”, toglie peso e presunzione al verbo avere, dicendo “avimm”. Gli voglio bene perché raddoppia “primma” e “doppo” e dà cosi più consistenza al prima e al dopo, al tempo passato e a quello venturo. Mentre il presente è un frattempo che si riduce a un “mò”, sillaba di momento. E sono affezionato al verbo andare che è più veloce del mondo, “i”, più corto del già svelto “ire” latino.

Perché quando te ne devi andare, “te n’ia i”, subito.

Liberamente tratto da “Alzaia” di E.De Luca

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